V DOMENICA "PER ANNUM" . 4 febbraio

a cura di don Giuseppe

SECONDA LETTURA. 1Corinzi 9,16-19.22-23

Non è infatti per me un vanto predicare il vangelo; è un dovere per me: guai a me se non predicassi il vangelo! Se lo faccio di mia iniziativa, ho diritto alla ricompensa; ma se non lo faccio di mia iniziativa, è un incarico che mi è stato affidato. Quale è dunque la mia ricompensa? Quella di predicare gratuitamente il vangelo senza usare del diritto conferitomi dal vangelo. Infatti, pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero: Mi sono fatto debole con i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno. Tutto io faccio per il vangelo, per diventarne partecipe con loro.

 

Paolo in questa parte della lettera tratta il problema degli idolotiti, ossia della possibilità per un cristiano di mangiare le carni prima sacrificate agli idoli e poi rivendute sui mercati della città. Egli, procedendo dall’assunto della non esistenza degli idoli, deduce la legittimità di un tale comportamento. Tuttavia questo punto di vista deve sapere incontrare le esigenze della carità, con il rispetto della coscienza dei «deboli», cioè di quelli che si scandalizzerebbero di ciò perché interpretano tale comportamento come idolatria (1 Cor 8,9). I «forti» sono dunque esortati a rinunciare al diritto di mangiare gli idolotiti per rispetto al cammino di fede di questi «deboli».

In questo contesto, Paolo ricorda un esempio affine tratto dal proprio ministero: come ‘apostolo’ avrebbe potuto godere del diritto di essere mantenuto dalla comunità, ma egli vi ha rinunciato, proprio perché mosso da carità verso i Corinzi. Voleva infatti facilitare la loro adesione al vangelo, evitando in ogni modo di poter essere confuso con uno dei tanti predicatori prezzolati. Ora può dunque chiedere ai Corinzi di mostrare nei confronti dei loro fratelli più deboli la medesima carità che egli ha usato per primo con loro: «Mi sono fatto debole con i deboli» (v. 22). L’esempio del suo ministero viene in definitiva qui addotto dall’Apostolo come dimostrazione di un tema più ampio e decisivo, quello della carità che edifica (cfr. 1Cor 8,2).

«Non è per me un vanto predicare il vangelo, è un dovere per me» (v. 16): è l’urgenza propria della carità. La carità della predicazione è risultato della libera decisione del chiamato, ma anche la necessità di rispondere adeguatamente alla vocazione divina. Paolo afferma quindi di essersi fatto liberamente ‘servo’ della causa del vangelo: «Pur essendo libero, mi sono fatto servo per guadagnarne il maggior numero» (v. 19). Ne consegue la rinuncia al diritto a una ricompensa per il proprio impegno apostolico, perché egli è schiavo del vangelo e da uno schiavo si esige che lavori senza una vera paga! Per questo non esige una ricompensa economica dai fedeli. Premio sufficiente, infatti, è per lui lo stesso essere stato assunto per il servizio del vangelo. Ecco allora l’indicazione scaturente dal suo esempio apostolico che i «forti» di Corinto devono prendere a modello, perché sappiano generosamente rinunciare a un proprio diritto in favore dei deboli: «Mi sono fatto debole con i deboli [...], mi sono fatto tutto a tutti» (v. 22).

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