V DOMENICA "PER ANNUM" . 5 febbraio

a cura di don Giuseppe

PRIMA LETTURA. Isaia 58,7-10

Così dice il Signore: «Non consiste forse [il digiuno che voglio] nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo, senza trascurare i tuoi parenti? Allora la tua luce sorgerà come l’aurora, la tua ferita si rimarginerà presto. Davanti a te camminerà la tua giustizia, la gloria del Signore ti seguirà. Allora invocherai e il Signore ti risponderà, implorerai aiuto ed egli dirà: “Eccomi!”. Se toglierai di mezzo a te l’oppressione, il puntare il dito e il parlare empio, se aprirai il tuo cuore all’affamato, se sazierai l’afflitto di cuore, allora brillerà fra le tenebre la tua luce, la tua tenebra sarà come il meriggio».

 

L’autore dei cc. 56-66 di Isaia, un profeta anonimo del VI-V secolo a.C., pronuncia oracoli di condanna e di salvezza rivolgendosi al popolo tornato dall’esilio. Il rientro nella terra di Giuda, dopo l’iniziale entusiasmo alimentato dall’aspettativa di un’imminente e definitiva liberazione, ha condotto Israele ad un progressivo sconforto, causato da un rimpatrio difficile e deludente. Al cuore del messaggio del terzo Isaia troviamo dunque un rinnovato annuncio di salvezza (cc. 60-62) che si innesta in un quadro tematico – quello a cui appartiene anche il nostro testo – nel quale emergono anche toni di aspra denuncia nei confronti di ogni forma di culto falso e ipocrita. Come in una appassionata requisitoria, Dio contesta a Israele di praticare un digiuno esteriore, privo di autenticità (digiuno/digiunare, nel c. 58, è una delle parole-chiave e ricorre ben 7 volte). Il popolo sembra motivato unicamente dalla convinzione che digiunare sia necessario per ingraziarsi la benevolenza divina e, di fronte all’apparente lontananza di Dio (58,3), invece di mettere in discussione l’ambiguità del proprio atteggiamento imputa a Dio di non vedere e di non considerare i sacrifici che vengono compiuti. Ma in questa modificazione non c’è spazio per ciò che è davvero necessario: le opere di giustizia e di misericordia. Nell’elenco dei gesti richiesti (vv 7.10) per sostituire ad una pratica formale una coerente adesione del cuore, Dio tratteggia un ‘denominatore comune’: la compassione. Soltanto chi sa prendere su di sé la sofferenza e il limite dell’altro, chi sa compromettersi lottando contro ogni forma di ingiustizia senza far distinzione di persone, non soltanto scoprirà la vera luce di Dio, ma ne diverrà una sorgente perenne. Le opere di misericordia che il credente è chiamato a compiere implicano due opzioni fondamentali: devono raggiungere le vittime dell’ingiustizia, senza distinguere tra concittadini e stranieri (è la prospettiva universalistica in tutto il terzo Isaia e qui segnata nel v. 7b); devono comportare un impegno personale – la condivisione del proprio pane (vv. 7 e 10) – con coloro che digiunano non per scelta, ma perché affamati dalle angherie dei più ricchi.

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