EUFEMIA di CALCEDONIA vergine e martire
E' patrona principale di Abbazia Pisani.
Molte sono state le sante martiri che si chiamarono col nome di Eufemia; ma sopra tutte le altre fu da Dio glorificata coi miracoli e celebrata da un gran numero di scrittori santa Eufemia di Calcedonia, la quale godendo già in antico di molta venerazione, ebbe dedicate al suo nome molte basiliche sia in oriente che in occidente.
La più antica fonte intorno alla santa Calcedonense sono probabilmente i Fasti vindobonenses priores, che ricordano il suo dies natalis al 16 di settembre del 303 (Diocletiano VII et Maximiano V). Un’omelia del IV secolo, attribuita ad Asterio vescovo di Amasea, narra il martirio di una santa Eufemia martire descrivendo gli affreschi di un martyrion a lei dedicato probabilmente nella stessa città di Amasea. Non tutti i critici concordano nell’identificare l’Eufemia di Calcedonia con l’omonima martire di Amasea, tanto più che le numerose successive recensioni degli Acta e delle Passiones della martire Calcedonense si discostano molto nelle loro narrazioni dall’omelia di Asterio. Della martire Amasena non abbiamo altra memoria che l’omelia di Asterio. Nei minei, nei menologi ed in alcuni martirologi latini al 20 di marzo si fa memoria di una santa Eufemia bruciata viva con altre sei compagne in Amiso (lectio corrupta di Amasea?) nella persecuzione di Massimiano.
Eufemia martire di Calcedonia
Secondo la passio Calcedonense la grande-martire Eufemia era figlia di due cristiani, il senatore Philophronos e Teodosia, e viveva nella città di Calcedonia, sulle rive del Bosforo (di fronte la futura Costantinopoli). A quel tempo, era proconsole d’Asia Prisco, un entusiasta devoto di Ares. Egli fece diffondere l’ordine a tutti gli abitanti della provincia di venire a Calcedonia per celebrare la festa del suo dio, sotto pena di morte.
Come risultato i cristiani fuggirono a piccoli gruppi in case isolate o nei deserti per sottrarsi al tiranno e salvaguardare la loro fede. Sant’Eufemia e altri 49 cristiani rimasero nascosti in una casa, dove assistettero segretamente al culto al Dio vero. Presto il nascondiglio dei cristiani fu scoperto e furono portati davanti al proconsole, che cercò con lusinghe di convincerli a non sacrificare la loro gioventù e ad avere buon senso. “Non sprecate il vostro tempo e le vostre parole con noi”, gli rispose la santa. “Ci sono persone dotate di ragione, per cui la più grande disgrazia sarebbe di abbandonare l’unico vero Dio, il Creatore del cielo e della terra, per rendere culto a idoli muti e inanimati. Non abbiamo paura dei tormenti che ci minacciano. Saranno facili per noi da sostenere e mostreranno la potenza del nostro Dio”.
Queste parole fecero infuriare il proconsole, ed Eufemia e i suoi compagni vennero ininterrottamente sottoposti a varie torture e tormenti per venti giorni, ma nessuno di loro vacillò nella fede, né accettò di offrire il sacrificio all’idolo di Ares. Il governatore, fuori di sé dalla rabbia e non sapendo in quale altro modo costringere i cristiani ad abbandonare la loro fede, li inviò a giudizio all’imperatore Diocleziano, ma trattenne la più giovane, la vergine Eufemia, sperando che la sua forza venisse meno se fosse rimasta sola.
Non vedendo il miracolo che era avvenuto, il torturatore ordinò ai soldati Victor e Sostene di prendere la santa e gettarla in un forno rovente. Ma i soldati, vedendo due temibili angeli in mezzo alle fiamme, si rifiutarono di eseguire l’ordine del governatore e divennero credenti nel Dio che Eufemia adorava. Proclamando arditamente che anche loro erano cristiani, Victor e Sostene coraggiosamente andarono al martirio, furono dati in pasto alle bestie feroci. Durante la loro esecuzione, gridarono per la misericordia di Dio, chiedendo che il Signore li ricevesse nel Regno dei Cieli. Una voce celeste rispose alle loro grida, ed entrarono nella vita eterna. Le bestie, però, neppure toccarono i loro corpi.
Sant’Eufemia, gettata nel fuoco da altri soldati, rimase illesa. Con l’aiuto di Dio uscì indenne dopo tante torture e altri tormenti. Attribuendo ciò a stregoneria, il governatore diede ordine di scavare una nuova buca, e riempirla di lame affilate, ricoprendola poi con terra ed erba, in modo che la martire non notasse la preparazione per la sua esecuzione.
Ancora una volta sant’Eufemia rimase illesa, passando facilmente sopra la fossa. Infine, fu condannata ad essere divorata dalle bestie feroci nel circo. Prima dell’esecuzione la santa cominciò a implorare il Signore che la ritenesse degna di morire di una morte violenta. Ma nessuna delle fiere, libere nell’arena, la attaccarono. Infine, un’orsa la ferì lievemente sulla gamba, che iniziò a sanguinare, e subito la grande-martire Eufemia morì. In quel momento avvenne un terremoto, e sia le guardie che gli spettatori corsero in preda al terrore, di modo che i genitori della santa poterono prendere il suo corpo e con reverenza lo seppellirono non lontano da Calcedonia.
Il Miracolo di S. Eufemia (11 luglio)
Quando la persecuzione di Diocleziano terminò, sopra la tomba della martire fu edificata una maestosa chiesa. In questo tempio si celebrarono le sessioni del quarto Concilio Ecumenico (16 luglio) che ebbe luogo nel corso dell’anno 451. In quei giorni, la santa martire Eufemia confermò in modo miracoloso la confessione ortodossa, e sconfessò l’eresia monofisita. Il Concilio era stato convocato per determinare le precise formule dogmatiche della Chiesa Ortodossa sulla natura di Gesù Cristo Dio-Uomo. Ciò fu reso necessario dal diffondersi dell’eresia dei monofisiti [“mono-physis”, “una natura”], che si opponevano all’insegnamento ortodosso delle due nature in Gesù Cristo, la natura divina e la natura umana (in una sola persona). I monofisiti falsamente affermavano che in Cristo vi era solo una natura, quella divina [che Gesù per natura è Dio, ma non uomo], causando disordini e discordia in seno alla Chiesa. Al Concilio erano presenti 630 rappresentanti di tutte le Chiese cristiane locali. Esponenti della posizione ortodossa furono tra gli altri Anatolio, patriarca di Costantinopoli (3 luglio), Giovenale, Patriarca di Gerusalemme (2 luglio), e i delegati di san Leone, papa di Roma antica (18 febbraio) che parteciparono ai lavori conciliari. I monofisiti erano presenti in gran numero, guidati da Dioscoro, patriarca di Alessandria, ed Eutiche archimandrita di Costantinopoli.
Dopo prolungate discussioni le due parti non riuscirono ad addivenire ad un accordo decisivo.
Il santo patriarca di Costantinopoli Anatolio propose al Concilio di sottoporre la decisione sulla controversia della Chiesa al Santo Spirito, attraverso la sua indubbia portatrice sant’Eufemia la Tutta-Lodata, le cui miracolose reliquie erano state scoperte nel corso delle discussioni del Concilio. I gerarchi ortodossi e gli avversari scrissero le loro confessioni di fede su rotoli separati e sigillati con i propri sigilli. Aprirono l’urna della santa grande-martire Eufemia e collocarono entrambi i rotoli sul suo petto. Poi, alla presenza dell’imperatore Marciano (450-457), i partecipanti al Concilio sigillarono la tomba, apponendo su di essa il sigillo imperiale e oltre ciò mettendo una sentinella di guardia per tre giorni, durante i quali entrambe le parti si imposero un rigoroso digiuno e resero intensa preghiera. Dopo tre giorni il patriarca e l’imperatore, alla presenza del Concilio aprirono la tomba con le sue reliquie: la pergamena con la confessione ortodossa era tenuta da sant’Eufemia nella mano destra, mentre il rotolo degli eretici giaceva ai suoi piedi. Sant’Eufemia, come se fosse viva, alzò la mano e diede il rotolo al patriarca. Dopo questo miracolo molti dei titubanti accettarono la confessione ortodossa, mentre quelli rimasti nell’ostinata eresia furono consegnati alla condanna del Concilio e scomunicati.
Le reliquie
Con la presa di Calcedonia da parte dei Persiani nel 617, le reliquie della santa grande-martire Eufemia furono trasferite a Costantinopoli in una nuova chiesa costruita e a lei dedicata, intorno all’anno 620. Durante il periodo dell’eresia iconoclasta, la teca con le reliquie di sant’Eufemia fu gettata in mare per ordine dell’imperatore iconoclasta Leone l’Isaurico (716-741). Il reliquiario fu salvato dal mare da pii marinai, i fratelli Sergio e Sergonos, che lo trasferirono all’isola di Lemno donandolo al vescovo locale. Il santo vescovo ordinò che le reliquie fossero conservate in segreto, sotto una cripta, poiché l’eresia iconoclasta continuava a imperversare. Una piccola chiesa fu costruita sul luogo ove erano custodite le reliquie e dove fu anche collocato un cartiglio che indicava che esse lì riposavano. Quando l’eresia iconoclasta ebbe fine, condannata al santo Settimo Concilio Ecumenico (787), nel 796 quando san Tarasio era patriarca di Costantinopoli (784-806), regnanti i santi imperatori Costantino VI (780-797) e Irene sua madre (797-802), le reliquie della santa martire Eufemia furono di nuovo solennemente trasferite a Costantinopoli, dove riposano intatte fino ad oggi nella chiesa del Patriarcato al Fanar.
Omelia XI di Asterio di Amasea
Racconto del martirio dell’illustrissima martire sant’Eufemia descritto dal beato Asterio vescovo di Amasea
(A.D.S. 307)
I. Non ha gran tempo, ascoltanti, che io aveva in mano l’opere di Demostene, che vale a dire d’un oratore eccellentissimo, come sapete, sopra tutti gli altri, e leggeva quell’orazione, in cui egli con forti, e pungenti entimemi gagliardamente confuta Eschine suo emolo. Aveva già letto con attenzione, e per tempo notabile questa orazione, e mi sentiva affaticato e stanco della mente, e aveva bisogno di qualche onesto sollievo, e passeggio a ristoro dello spirito. Uscito di casa, e date alcune volte passeggiando per la piazza cogli amici, mossi di là al tempio del Signore per farvi con quiete orazione. Finita la mia orazione passai per uno de’ portici di quel tempio, e mi venne veduta una certa dipintura, la quale mi sorprese; e fermatomi a riguardarla, e considerarla, mi parve sempre più bella, e eccellente. Divisava meco stesso, che quella sarebbesi potuto dire esser opera di Eufranore, o di qualche altro solennissimo pittore del valore di quelli, i quali per la loro somma perizia, e materia nel dipingere avevano ne’ tempi preteriti inalzata la pittura all’ultima eminenza, e perfezione: e pareva, che non ritrattassero nelle loro tavole la sola apparenza superficiale delle cose, ma che vi collocassero in realtà le cose medesime, che vi dipingevano. E perciocché questa dipintura tanto mi piacque, m’è dipoi rimasta sempre vivamente impressa alla fantasia: e giacché ora ho a ragionarvi, se vi piace, verrò esponendovi colle parole questa stessa pittura, e la ritrarrò, e dirò così la vi dipingerò alle vostre orecchie co’ propri colori dell’eloquenza: e noi, che siamo stati allevati, e lungamente educati infra le muse, e in lunghi, e molteplici esercizi dell’arte di ben parlare, abbiamo nelle parole, e nelle idee della mente colori non meno acconci, e vivi a far sentire a chi ci ascolta le nostre pitture, di quelli, che abbiano i pittori a far vedere le loro a chi le riguardi.
II. Vi fu già una donzella vergine illibatissima, che consacrò a Dio la sua verginità. Ella ebbe nome Eufemia. Avvenne, che il tiranno mosse una fiera persecuzione contro le persone pie, che viene a dire contro i cristiani. E Eufemia, che molto coraggiosa era, e fedele a Gesù Cristo, per gloria del suo nome non temé di esporsi alla morte, e sostenerla. I suoi cittadini, quelli cioè, che nella sua patria ebbero con lei comune la fede cristiana, per onore, e riverenza della quale Eufemia era morta, l’ammirarono sempre, e venerarono come un insigne prodigio della cristiana fortezza, e santità; e poco lungi dal tempio fecero a lei un decoroso sepolcro, e sopra vi fabricarono un oratorio, dove tutti potessero accorrere per onorarla; e ogni anno nel dì solenne della sua memoria vi si fa una divota congrega di tutto il popolo, che con inni e cantici spirituali, e con altri uffizi della cristiana religione festeggia, e celebra il giorno anniversario del suo combattimento, e della sua vittoria. Quivi di più i sacri ministri del Signore, e gl’interpreti fedeli dei divini arcani predicano a circostanti i meriti della martire, onde sempre viva e conta si conservi in tutti l’onorata memoria di lei: e principalmente con avveduta cura si studiano di dichiarare, e comendare le sue virtù, e l’invitta fortezza, e il fervoroso amor suo a Gesù Cristo, onde lieta consumò il martirio; e procaccino di tutti infiammare a una grande stima, e ad una imitazione ferma e costante di lei. Oltre tutto questo un valorosissimo dipintore disegnò, e ritrasse in nobil tela tutta la storia de suoi patimenti, e del suo martirio, e poi l’appese, e sacrò a monumento pregevolissimo in tutti i secoli avvenire al sepolcro della martire, acciocché chiunque là concorresse, potesse vedere, e quasi leggere distintamente tutti gli atti delle divine sue virtù. Questa pittura, che è al naturale, e che in ogni parte di se è bellissima, è ritrattata nella maniera, che or vi dirò.
III. Vi si vede il giudice, che sedutosi sopra d’un alto soglio con viso sdegnato, e con severo sopraciglio riguarda in giù la vergine biecamente: e la mano del pittore fu sì eccellente, e felice, che in quella morta tela, e con morti colori ha saputo al vivo effigiare lo sdegno nel volto del tiranno sì e per tal modo, che chiunque riguarda quel volto vi vede, e vi legge lo sdegno del cuore. Intorno al giudice vi sono i magistrati, i soldati, gli sgherri, e gli altri consueti ministri d’un pubblico tribunale. Vi si veggono i pubblici notaj, che hanno quale in mano, quale davanti nel tavoliere e tavolette, e stili per scrivere, e altrettali arnesi, che all’opera loro bisognano. Uno di questi notaj o scrittori tiene in mano lo stile in atto di scrivere, e guarda la vergine fisamente, e verso di lei si stende colla faccia, e par che le dica sensibilmente, che risponda più forte, perché egli non bene intende le sue parole; e potrebbe errare nello scrivere le risposte di lei, registrandole altramente da quelle, che essa dà. In faccia a costoro si sta in piedi la vergine Eufemia; è vestita di nero, e coperta col pallio filosofico a dinotare, che ella professava la filosofia, ma la filosofia celeste e divina. Le fattezze, e tutto il volto della vergine è bellissimo; e forse pensò il pittore, che quella meravigliosa bellezza provenisse dalla simetria, e proporzione di tutte le sue parti; ma siccome io stimo, tutta procedeva da quelle virtù, che abbellivano lo spirito di lei, e facevano al di fuori traparirle alcun poco nel volto quelle interna invisibile bellezza di paradiso. Vi si veggono due soldati, che tengono legata la vergine, uno le sta davanti, e l’altro alle spalle. La positura della vergine, e ogni atteggiamento di lei mostrano e una verecondia e modestia verginale, e insieme una costanza e fortezza piucche virile. Tien basso il capo, e gli occhi fisi in terra, e mostra di vergognarsi, e temere di guardar faccia d’uomo; e non per tanto si ravvisa in lei una virtuosa alterezza, e una presenza di spirito franco e magnanimo, che nulla si commove di quel ferale apparato, e di tutti i pericoli, che possa incontrare. Io aveva già pregiate assai per l’addietro, e comendate alcune eccellenti pitture da me vedute, nelle quali era dipinta la favolosa Medea in atto di svenare i proprj figliuoli. Quivi il dotto pittore ritratto avea la madre colla spada nuda in mano, e impugnata, e vibrata contro del seno degl’innocenti bambini, e nel volto di lei si vedeva e lo sdegno, e la pietà distintamente; e gli occhi di lei spiravano e furore di sposa tradita, e disperata; e tenerezza di madre amante, e pietosa: e in queste imagini di Medea con artifizio singolare si vedevano effigiati tutti que’ contrarj affetti, che il cuore di lei lacerarono, quando abbandonata da Giasone, per forsennata bestial vendetta uccise que’ due figliuoli, che di lui aveva generati. Ma dopo aver veduta la religiosa veridica pittura, di che io parlo, altre, che questa più non ammiro, e non lodo: né so comprendere, e commendare abbastanza il valore e la perizia dell’eccellente dipingitore, il quale ha saputo effigiare in questa tela con morti materiali colori i costumi, le virtù, e le occulte bellezze dello spirito; e in un sol volto seppe dipingere insiememente e verecondia, e modestia piacevolissima, e coraggio, e ardimento terribile e sovrano, che pajon cose ripugnanti fra loro, e incompatibili.
IV. E procedendo innanzi nella sposizione di questa tela meravigliosa: veggonsi in un lato i carnefici, i quali deposte le loro vestimenta, e rimasi in un leggiero farsetto rabbiosamente adoperano il loro crudel ministero. Uno di questi piglia il capo alla vergine, e gliel ripiega all’indietro; un altro le apre la bocca per forza, e la tiene così colla bocca aperta, mentre un terzo, che le sta davanti, con immenso spasimo le strappa ad uno ad uno i denti dalle mascelle; e gl’istromenti, che adopera a questa barbara esecuzione, sono una tenaglia, e un martello, che ivi veggonsi sì ben dipinti, che pajono veri, e l’una è in mano all’infame e spietato carnefice, e l’altro gli pende al fianco. Cascan giù dalla bocca della vergine larghe gocce, e copiose di vivo sangue, e son dipinte con tanta vivacità, che il visivo senso dell’uomo vi prende errore, credendo, che sia viva, e penante la vergine, e vivo quel sangue, che è dipinto: e io non pure al vedere quella pittura, ma adesso al solo rammentarla, mi sento compreso tutto e compunto di tenerezza, e mosso a piangere, e costretto a parlare con voce infievolita da sospiri, e con parole interrotte da singulti. In un’altra parte è dipinto un orrido oscuro carcere: quivi si vede vestita a bruno sola sedersi la nostra vergine ammirabile, che inalza al cielo divotamente ambe le mani, e Dio implora fedelmente, e il chiama in ajuto del suo patire: e sopra il capo della vergine si vede il segno della nostra redenzione, che i cristiani adorano con tanta riverenza, e che hanno in costume di segnare qual loro cara onorata divisa sopra d’ogni cosa loro: e indovino, che il pittore vi dipingesse questo segno, a dimostrare il desiderio grande della nostra eroina, di partecipare i dolori della croce di Gesù Cristo. Nella parte poi della tela più eminente, e lontana si ravvisa chiaro un grandissimo incendio, ed è sì acceso, e sì gagliardamente lumeggiato il rosso di quelle fiamme, che par di vedere le ondeggianti ritorte, onde si slanciano al cielo, e par di sentire lo strepito e il fragore, onde s’avventano per ogni dove, in mezzo a quest’incendio immenso v’è dipinta la martire: ha le braccia aperte, e le mani alzate al cielo, e nel bel volto quieto, e sereno niun timore, e niuna noja non mostra, anzi vi si vede il giubilo, e il godimento, e tutto lo spirito occupato, e immerso nel beato pensiero, di fare appunto allora il gran tragitto da questa terra al cielo, dalla morte alla vita, e da un brieve penare a un godere immenso, eterno, e beatissimo. Tutto questo, e non più dipinse nella sua tela il valoroso pittore: e perché la pittura di lui fu tutto l’argomento di questo mio dire, dove quella finisce, anche questo debbe finire: soggiungendo questo solo, che ognuno di voi ha e tempo, e comodo per andare a vedere di per sestesso l’eccellente pittura; e vedutala, per sestesso potrà giudicare, se io oggi nel mio dire abbia saputo coi colori dell’eloquenza ridipingerla e copiarla felicemente.